di Sebastiano A. Patanè-Ferro

martedì 18 ottobre 2011

Pasquale Vitagliano







la sensazione che viene fuori fin dai primi versi, è di quasi doloroso muoversi dentro un insieme di oggetti, divenuti poetici in nome dell’assenza  che l’autore,  mirabilmente,  trasforma in poesia.  Si percepiscono  delle forme come “colate” dalle ombre lasciate lì dai gesti, dagli incontri, come se l’odore di una stanza chiusa interferisse con l’intenzione che, a mio avviso, è di statico ribellarsi al tempo che scorre senza tuttavia cancellare, allo spazio che, seppur  vuoto, non riesce a “liberare” talune presenze


“I libri non letti,
gli abiti gettati sui letti
sono corpi di pelle,
la polvere sui cuscini,
la posa del caffè
che ti resta tra le dita,
non mi siedo più,
tiro un respiro sulle ciocche
dei capelli che mi restano in mano.”


Vitagliano parla di quel tipo di fantasmi mnemonici che interagiscono col presente in forma del tutto disabilitante, che non riescono a suggerire reazioni, che legano con fasi depressive chi non ha più la forza di cercare soluzioni ed il mondo è pieno di sentimenti maltrattati senza via di scampo.
Pasquale Vitagliano racconta apertamente quell’altra faccia della medaglia dove spesso è difficile trovare vie d’uscita o, peggio, non c’è lieto fine. E’ un realista che coincide con tutti gli aspetti della vita, compreso il “senza speranza” perché, ed è evidente, conosce le logiche del paesaggio umano che non è compreso solamente tra querce e fiordalisi, ma anche tra burroni e veleni.
Quella di Vitagliano è una scrittura da masticare a lungo, da leggere con la dovuta attenzione affinché si possa trattenere la consapevolezza poetica e, soprattutto, quella umana di poeta-uomo che sa ben distinguere le verità descrivendo efficacemente ciò che nella sua grande anima si forma poesia.



Pasquale Vitagliano, nato nel 1965, vive a Terlizzi (BA). Giornalista e critico letterario per diverse riviste locali e nazionali. È presente in numerose antologie poetiche. Per la casa editrice LietoColle ha pubbli­cato la raccolta di poesie Amnesie amniotiche (2009). Suoi scritti sono apparsi su Italialibri, Lapoesiaelospirito, Neobar, Reb Stein e Nazione Indiana.
I testi qui presentati sono tratti da “Il cibo senza nome” edito da LietoColle






Agli angoli delle strade



I libri non letti,
gli abiti gettati sui letti
sono corpi di pelle,
la polvere sui cuscini,
la posa del caffè
che ti resta tra le dita,
non mi siedo più,
tiro un respiro sulle ciocche
dei capelli che mi restano in mano. 

Assomiglia a se stessa
la vita che raccontiamo
per sentirci diversi dai libri,
dai letti, dai vestiti,
per non confonderci coi capelli,
con le mani che senza di noi
sarebbero piante strane
o radici cucite che non hanno odore,
insieme alle scarpe o alle fedi
che non mi hanno spiegato il viaggio,
forse terminato senza alcun risultato,
fermo al punto solito,
all’angolo di un appuntamento mancato.






Carta



Quanto tempo è rimasta là,
sulla mensola, la carta dorata,
involucro scartato di dolcezze negate;
è una spora fossilizzata, è una crosta
lucente e oscena sopra i vapori dell’invisibile.

Non è riuscita ad agglutinarla neppure
il tempo, nell’ora degli affreschi,
così che giace mummificata sul laminato,
appare narcotizzata, fissata nella sua realtà;

un apparente omaggio ed invece irrigidita langue
appesa vicino ad un drappo staccato, sospeso nell’aria 
che non gli appartiene, una prefica sotto un impiccato,
perché essa è il corpo morto di un sapore svanito.





Sosta



Sul treno immobile all’illimite sosta 
nel luogo dell’ingiusto albergo,
all’ombra trema la mite resa
all’ultima ora dell’inatteso arrivo.

Non ha più spettatore questo naufragio,
perché lo sguardo affoga in pieno centro.

Sull’alba è passato lo spasimo teso
ad arco nelle trame delle vertebre spogliate
senza ritegno dalle giornate perse
ad interrogare l’oracolo verticale degli orari.

Non ferma al rimpianto il viaggio inerte che
guarisce il mistico saluto del passeggero.


*


Ne ho sentiti di silenzi,
scialbe assenze di volume,
o loquaci più di un corpo autoptico.

Ne ho sentiti di silenzi,
uno spazio bieco, lasciato fuori
dall’altro lato dei volumi.

Non ne ho più trovato uno uguale
a questo risvolto oltre l’intero,
dentro questo insediamento di parole.

Nell’immagine negativa del pieno,
la scia tracciata dopo l’onda
ritratta dalla riva,
via da lettere e da particelle.

Ne misuro il peso col ghiaccio in bocca.

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