di Sebastiano A. Patanè-Ferro

martedì 13 marzo 2018

Concha Méndez Cuesta (1898 – 1986)





©” Concha Méndez Cuesta”
traduzione e cura di Sebastiano A. Patanè-Ferro
Catania 2012



Introduzione


Ho cominciato a tradurre Concha Méndez Cuesta per curiosità, per capire fin dove  l’influenza di Lorca o di Alberti abbia potuto definire questa poetessa così sconosciuta in Italia. Ma ben presto la curiosità ha cominciato a virare verso la sua personalità, la sua vitale poesia, fatta di immagini non ricercate, dove lo spontaneo sgorgare della parola non si carica di logismi elittari  o surrealismi d’essai.
Si entra piano nella poesia di Concha, in punta di piedi, per non disturbare il leggero e delicato tessuto che trattiene i ritmi e le narrazioni che sono poi rappresentative di una parte della sua vita che ha avuto anche i suoi lunghi tratti turbolenti. La semplicità e la libertà sono le urgenze della Méndez: semplicità perché vuole sempre essere certa che la si comprenda; libertà, per tentare di uscire dalla conflittuale intolleranza con quella parte di se che, per quell’educazione medio borghese ricevuta per imposizione, si ribellava davanti a schemi sociali che non capiva e, ovviamente, vinse questa battaglia quella Méndez Cuesta che ci viene raccontata dai discendenti. Queste conflittualità ed il desiderio di essere se stessa, Concha, le ha largamente espresse nelle sue poesie in un periodo storico difficile, dove alla donna era concesso solo di fare la “donna” ma, col gruppo cosiddetto “del 27”, Concha Méndez riuscì a liberarsi di molte catene e, soprattutto di liberare la sua passione. Dopo i primissimi testi, dove si avverte la presenza di un giovane Lorca, la sua poesia comincia a prendere corpo e spessore già fin da “Surtidos” (1928) e  la poetessa assume consapevolezza aprendo un rapporto con la parola assolutamente proprio.
Mi ha affascinato la storia di questa coraggiosa donna che ha affrontato tre esili ed ha vissuto gran parte della sua vita lontana dalla sua terra e delle sue “cose”, e mi ha affascinato questa sua poetica così spontanea e così ricca di passione e di sentimenti propri della personalità ispanica. Per conto mio, vorrei riuscire a tradurre l’opera completa di Concha,  ma spero che la storia
possa dare  maggior risalto a Concha Méndez Cuesta, una donna
che ha dimostrato che niente può frenare una passione, nemmeno una dittatura con una ideologia  che si impossessa della vita e del pensiero degli uomini.


Nota biobibliografica


Concha Méndez Cuesta nasce a Madrid il 27 luglio del 1898. Prima di undici fratelli, Concha, la cui famiglia è benestante ma tuttavia non borghese, viene educata in un collegio francese, dove riceve un insegnamento prettamente cattolico e fin troppo “femminile”, educazione che la Méndez non condivideva del tutto e che, al contrario, formava il suo carattere ribelle ed inquieto. Comincia a scrivere versi già in giovanissima età e a 19 anni, mentre si trova in villeggiatura a S. Sebastián,  conosce Luis Buñuel con il quale resterà fidanzata per 7 anni. Amica di Lorca e Alberti, frequenta riunioni, letture poetiche ed esposizioni con i giovani della generazione artistica di quegli anni, chiamata Gruppo del 27, dove Maruja Mallo, brava pittrice e Rafael Alberti, diverranno due figure chiave per il suo futuro letterario. Nel 1926 esce il suo primo libro “Inquietudes”, due anni dopo “Surtidos” e nel 1930 “Canciones de mar y tierra” dove si nota l’impronta della sua amicizia con Maruja che sarà la sua guida verso una maggiore emancipazione. Questo è un periodo di intensa attività per le due amiche durante il quale, nasce l’atto unico “El ángel cartero” opera di teatro infantile scritta dalla Méndez e decorata dalla Mallo.
Viaggia per diversi paesi, soprattutto Inghilterra e Argentina. Nell’aprile del 1931, con l’istaurazione della repubblica in Spagna Concha rientra nella sua terra e vive un momento artistico elevato
sostenuto da un forte e sentito surrealismo. Garçia Lorca le presenta il poeta malagueño Manuel Altolaguirre, con il quale, l’anno seguente si sposa. Testimoni di queste nozze saranno lo stesso Lorca, Juan Ramón Jiménez, Luis Cernuda e Jorge Guillém. Ma con l’ascesa al potere di Franco, nel 1933, è costretta all’esilio e i due vanno  a vivere a Londra, dove, dopo aver perso un bambino nato morto, l’anno dopo  nasce la figlia Paloma.
Insieme al marito contribuisce alla diffusione dell’opera del gruppo del 27, pubblicando collezioni di poesia e riviste come Poesía, Héroe, 1616, y Caballo verde per la poesia, diretta con Pablo Neruda.  Durante la guerra civile sono esuli a Parigi e a
L’Avana fino al 1943, dove conosce la filosofa spagnola Maria Zembrano, esiliata anche lei e che sarà, per Concha un punto di
riferimento per le opere successive. L’anno dopo, nel 1944, col marito si sposta  in Messico, dove , poco dopo, si separano.
“Vida y vida”, “ Lluvia enlazadas” y “Niño y sombras” sono le tre raccolte che scriverà in questo periodo (tra il 1931 ed il 1943).
Nel 1966 rientra a Madrid ma continua a risiedere in Messico fino alla sua morte nel 1986. Nel 1991 vengono pubblicate dalla nipote Paloma, le sue memorie estratte da un nastro che lei stessa aveva registrato.



Grande è il mare; ci separa…


Grande è il mare, ci separa:
resteranno le nostre anime congiunte.
Come un ultimo ritratto, nei nostri occhi
impressi brilleranno i nostri sguardi

La barca che dovrà portarmi via sta nel porto,
a questa seguirà l’altra perché tu vada.
Ti aspettano le mie braccia, non so dove…
in qualche baia a volte … in una spiaggia…



Da quale campo di grano ferito…


Da quale campo di grano ferito
ti presero,
mio povero angelo caduto?

Forse era il tuo destino
andare tanto lontano a finire
e per quello che tanta fretta
avevi quando partisti?

Era l’appuntamento in Castiglia
e quella notte castigliana
per accoglierti tra le sue braccia
a quella ora ti aspettava?

Quanto stava fuori la mia vita
mentre la tua partiva
per un viaggio di andata
senza ritorno senza niente!...


In una sera, come tante sere…



In una sera, come tante sere,
e in un grande parco di città lontana,
per invadersi del rumore esterno,
passeggiando stavo con me stessa.

C’era un intenso fresco, si vedevano
sopra i verdi i segnali d’acqua,
acqua di primavera che da alla terra
quella sensualità che ci esalta.

In uno stagno del florido parco,
insieme ad un banco di pietra verde e bianca
un gran roseto nella penombra brillava
-la sera quel momento declinava-
mi sedetti a riposare e un forte profumo
sentii che nei miei sensi s’addentrava.
e mi raggiunse l’anima una strana angoscia.
L’ala di un ricorso sfavillava…
Ah si ora capisco!... Profumo di qualche rosa!...
Altro paese!... Il mio!... Già arrivavo
a comprendere il perché!...
                                 Era fra le sue braccia
dove un profumo uguale respiravo!



Erano verdi come un mare…


Erano verdi come un mare,
con riflessi di cielo alto.
-Come sapevano guardare!-
degli occhi che ricordo.

Nella penombra brillavano
con una luce di mistero,
come due chiari abissi
aperti a mille desideri.

Molte ore ebbi vicino
gli occhi verdi quelli,
che imploranti mi fissavano
ed io non li vedevo!

Oggi che vorrei guardarli
stanno tanto lontano… tanto lontano!



Mi sollevai anche il sogno. Cercavo…

                                                         “La vita è un cervo ferito
                                                            che le frecce danno ali.” 
                                                                                   Góngora 

Mi sollevai anche il sogno. Cercavo
di non sentire la ferita che bruciava.
Le dure frecce del dolore fecero
sbocciare in me il garofano di nuova piaga.

Correndo di pari con il vento
ed inseguita dall’amante fiamma,
la vita è cervo ferito senza riserve,
che le frecce danno veleno ed ali



Non mi capisco né mi capiscono…


Non mi capisco né mi capiscono;
non mi aiuta anima né sangue;
quel che vedo coi miei occhi
non lo voglio per nessuno.

E’ tutto estraneo a me stessa,
anche la luce, persino l’aria,
perché non riesco a vederla
e non so come la respiri.

E se guardo verso l’ombra
dove la luce si discioglie,
temo di disfarmi anch’io
e dentro l’ombra rimanere
confusa per sempre
in questo grande mistero



Il riso


Qualcuno ha detto che “il riso
è un gran seppellitore”
Quindi mi si sta interrando
perché rido ogni momento.


Si separò il mio sangue per formare il tuo corpo…


Si separò il mio sangue per formare il tuo corpo…
si suddivise la mia anima per creare la tua.
e trascorsero nove lune e tutta un’angoscia
di giorni senza riposo e notti smaniose.

E giunta l’ora, ti persi senza vederti.
Di che colore i tuoi occhi, i capelli, la tua ombra?
Il mio cuore che è una culla che in segreto ti conserva,
perché sa che andasti e ti portò alla vita,
continuerà a cullarti fino all’ultima mia ora.


Le braccia che ti han portato…


Le braccia che ti han portato
non ti lasciano scappare
per tornare al mio fianco.

Ci separa un grande mare
di difficili tempeste,
e naufrago devi arrivare
se vuoi tornare alla mia porta
per volerti salvare.

Braccia che ti sottomisero
per allontanarti da me,
a me che si, mi salvarono!...

Quando già non sappia di te
quanto starei bene nella vita!,
quando già non sappia di te.

Quando non torni a vedermi
e le mie ore sono solo mie
io ritorno ad essere chi ero
lontano dalla tua compagnia:

quando i miei occhi non ti vedono,
che bella mi saprà la vita!

Non mancherà chi ne sarà contento…
un po’ perché non mi vogliono,
e qualcuno perché mi vuole…

Tanto sola non mi hai lasciato
sto con me e mi basta
uguale a come è sempre stato


Vorrei avere diversi sorrisi di ricambio…


Vorrei avere diversi sorrisi di ricambio
e un vasto repertorio di modi per esprimermi.
O bene con la parola o ben con le maniere
cercare l’abile gesto che possa farmi scudo…

e come il gesto, cercare nella menzogna
differenti travestimenti, ben vesti l’inganno;
e potere senza coscienza, dare alla gente,
con sottile manovra, la carezza del danno.

Io vorrei e non posso! essere come gli altri,
che popolano il mondo e si chiamano umani:
sempre il bacio al labbro, nascondendo i fatti
ed infine… lavarsi con tranquillità le mani

Tutto, meno che venire per finirsi

Tutto, meno che venire per finirsi.
Meglio un raggio di luce che mai smette
o goccia d’acqua che va in cielo
e poi si rende  al mar nelle tempeste.

O essere aria che corre negli spazi
nelle forme d’uragano o brezza fresca.
Tutto meno che tornare per finirsi
come finisce, infine, questa esistenza



vieni qui che sei ferito


vieni qui che sei ferito
che in questo letto di sogni
potrai riposar con me

Vieni, che già è mezzanotte
e non c’è orologio del ricordo perso
che le sue emozioni riversa

nel mio petto addolorato

Nessun commento: